“Il volto è rivolto a me, è questa la nudità stessa”, scrive il filosofo E. Lévinas. E gli adolescenti che l'obiettivo di Nicola Vinci inquadra appaiono letteralmente indifesi, inermi, spogli. Il loro sguardo ha un che di selvatico, di primitivo, perchè privo di scudi psicologici o culturali. Sono i ragazzi delle periferie di Città del Capo (in Sudafrica), che vivono ancora il retaggio dell'Apartheid, tra miseria, disoccupazione, piccola delinquenza. E a un primo sguardo le foto di Vinci sembrano indagare proprio le impronte, i segni di sofferenza, di disagio fissati sui loro corpi e sui loro volti. Tanto che le loro posture rimandano in qualche modo ai busti dolenti degli “Ecce Homo” di Antonello da Messina: fatali, inafferrabili, sinistramente disarmati. Prossimi alla fine e prossimi all'inizio. Baudrillard afferma che le foto fatte ai “selvaggi” sono le più belle, perché il selvaggio fronteggia sempre la morte, trasforma un'operazione tecnica in un faccia a faccia con la fine. E questo segreto lo circonda di un profondo mistero. Vinci adopera la fulmineità dello scatto per captare nei volti un bagliore di ingenuità e di destino capace di svelare il fatto che i soggetti non sanno chi sono e forse non sanno neppure come vivono. Un bagliore di impotenza e di stupefazione che il fotografo accentua mettendo ogni singolo individuo contro un muro (un fondale), come può avvenire in un commissariato di polizia. Solo che in lui non c'è nessuna intenzione di rilevare impronte, di schedare, di archiviare. Ad interessargli, casomai, è proprio l'opposto: e cioè l'archetipo del volto che elude ogni catalogazione poliziesca e razzista dell'identità, e che, agli antipodi del ritratto, è tanto più volto quanto più è sfuggente, fantasmatico, anonimo. E non è un caso che le dodici fotografie in esposizione abbiano come titolo un nome, ma che questo nome non corrisponda al personaggio rappresentato. L'altro rimane sempre tutt'Altro. La relazione con l'Altro in questi lavori è una relazione trascendente, apre una distanza infinita e quasi irriducibile tra l'io e l'altro. Anzi, essa è ciò che permette di andare oltre l'io senza mai incontrare davvero l'altro : “l'autrui rimane infatti sempre ailleurs, altrove” (F. Rella). E così il viaggio di Vinci non può più definirsi come un viaggio di documentazione, ma come un itinerario di sorpresa, di stupefazione. Sulle sue superfici fotografiche non si imprimono rilievi di carattere etnografico, indagini di stampo fisiognomico, ma impronte inafferrabili di intimità, veroniche inconoscibili di anime.
(di Luigi Meneghelli)

Raymond, true giclèe print on dibond, 2010

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